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la FIAT 500 vola nel Paese delle Aquile

istantanee di viaggio di Gianluca Fiorentini

L’idea di un viaggio in Albania nasce oltre due anni fa quando, nel puzzle dei Paesi della penisola balcanica attraversati con la mia FIAT 500, mancava solo la tessera dello Stato albanese. Decisi così di colmare finalmente quel vuoto, piccolo ma determinante come l’ultimo pezzo di ogni puzzle. Peccato che l’11 marzo 2020, ad un mese dalla partenza, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò lo stato di pandemia.

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Moschea di Piombo


Nel porto di Bari, incolonnato nella schiera di auto in attesa dell’imbarco, torno con il pensiero a questo stesso giorno di 31 anni fa, quando la nave mercantile Vlora attraccava al molo Carboni con il suo carico spropositato di esseri umani. Quell’8 agosto del 1991, dopo venti ore di un viaggio massacrante, oltre ventimila albanesi stremati, in fuga dal proprio Paese sull’orlo del collasso, si lasciarono cadere in acqua e si calarono sul molo lungo le gomene, uno sull’altro, pericolosamente. Le immagini televisive del più imponente sbarco di migranti arrivati in Italia su una singola nave fecero il giro del mondo.

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Giunto a Bar, in Montenegro, percorro circa 30 chilometri e supero la dogana in uscita. Mi aspetto un ulteriore controllo dei documenti dall’altro lato della frontiera e poi il classico cartello plurilingue di benvenuto nel nuovo Paese. Nulla di tutto questo, a parte una sequenza interminabile di scritte lavazh dipinte a pennello sui muri a bordo strada. Si dice che in Albania esistano più lavaggi per auto che pompe di benzina!

Al cameriere sulla porta d’ingresso di un ristorante di Scutari chiedo indicazioni su come raggiungere il bed and breakfast che avevo individuato per il mio soggiorno in città. L’uomo sembra conoscere la mia destinazione ma non parla le lingue e gli riesce difficile farsi comprendere con i soli gesti; quindi accartoccia la sigaretta nel posacenere dopo averne aspirato un’ultima rapida boccata e sale sulla sua auto invitandomi a seguirlo con la mia. Benché in passato mi sia già capitato di essere “scortato” da qualcuno che aveva mollato tutto per guidarmi sulla strada giusta o per condurmi alla meta, riesco ancora a commuovermi di fronte a tanta generosità disinteressata.
Ad accogliermi trovo Jorik, un ragazzotto sulla quarantina che si esprime in un italiano quasi perfetto. A tradirlo è la “r”, pronunciata “arrotondata”, che suona come il numero 2 pronunciato da un cinese del Liaoning.

Da due giorni non ricevo notizie di Maurizio. E’ partito da Torino con la sua 500 F che pare uscita ieri dal Lingotto (al contrario della mia, stravissuta e imperfetta) per raggiungermi qui a Scutari. Le ultime lo davano all’ingresso delle bocche di Kotor alle prese con la batteria scarica.

Dopo una colazione pantagruelica ingrano la prima e salgo verso il castello di Rozafa. L’ultimo tratto di strada è un ripido acciottolato di pietre lucide e sporgenti che fanno stridere gli pneumatici.

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Castello di Rozafa


Un gruppo di omaniti nei loro abiti tradizionali si fa fotografare con la 500, strategicamente parcheggiata dopo un tornantino in modo da non passare inosservata.

Dedico quel che resta della torrida mattinata alla Moschea di Piombo e nel pomeriggio guido lungo la costa meridionale del lago di Scutari, il più esteso specchio d’acqua interno dei Balcani. Attraversato il ponte sul fiume Buna, oltrepasso un villaggio rom - la cui comunità è intenta a scaricare rottami metallici e plastica da certi tricicli a motore con un carretto al posto della ruota anteriore - mi lascio alle spalle Shirokë e mi spingo fino a Zogaj, ultimo centro abitato albanese prima del confine con il Montenegro, oltre il quale la strada si fa sterrata prima di interrompersi.

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Zogaj


Continuo a piedi fino all’edificio diroccato della polizia di frontiera che oggi è presidiato da una mucca piuttosto permalosa. Sulla sinistra, fagocitato dalle sterpaglie, un ricovero sotterraneo in cemento armato. Per tutta la durata del regime comunista l’ingresso al piccolo borgo di frontiera rimase interdetto e i suoi abitanti, di fatto, furono condannati all’isolamento.
Sulla via del ritorno, al centro della carreggiata, una vacca che pasteggia con i rifiuti contenuti nei sacchetti dell’immondizia ostruisce il passaggio alla 500. Intanto, una capretta viene a mettere il muso nell’abitacolo e un piccolo gregge di pecore attraversa la strada poco più avanti.

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Vesto i panni del flâneur e me ne vado oziosamente a zonzo per Scutari.
Su un marciapiede appena fuori dal centro, di fronte alla vetrina che reclamizza l’offerta “Giganet” di Vodafone, una contadina con il fazzoletto annodato sotto il mento vende il raccolto della giornata seduta su un secchio rovesciato: pomodori, okra (frutti del gombo che in India sono chiamati “lady’s finger”), fichi e meloni sono esposti a mucchietti intorno ad una vecchia bilancia in metallo, con l’indicatore graduato rotondo e il piatto da pesata sulla sommità.
Ecco la statua gibbosa di “nene Tereza” (madre Teresa) con i polsi incrociati sul petto e i vasi di fiori freschi ai suoi piedi, l’edicola con i quotidiani del venerdì, due polli in gabbia destinati a finire sulla griglia con panna e funghi freschi, la pensilina della fermata dell’autobus trasformata in rivendita improvvisata di snacks e bevande energetiche, i telefoni pubblici arancioni, i cappelli di feltro della tradizione albanese al mercato coperto della città, le zucche a forma di nocciolina gigante ancora attaccate alla pianta e avvolte in fasce come neonati nelle fasce porta bebè.

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Scutari


Jorik mi telefona pregandomi di accogliere Maurizio appena arrivato al B&B. Lui è fuori e i suoi genitori parlano solo albanese. Il papà e la mamma di Jorik vivono al piano terra della casa che per quarant’anni è stata il luogo in cui si è articolata la loro vita familiare. I due piani superiori sono, da qualche anno, adibiti all’ospitalità. Il volto di Maurizio porta sì i segni di un viaggio lungo 1400 chilometri macinati tutti d’un fiato ma allo stesso tempo esprime tutta la soddisfazione per aver portato a termine la sua prima esperienza in solitaria alla guida di una FIAT 500 al di fuori dei confini italiani.

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Al tramonto, il centro di Scutari si trasforma: le vie diventano pedonali, aprono bar e ristoranti, si accende la musica, l’intera popolazione della città si riversa in strada per il rito del xhiro, come si dice da queste parti, la passeggiata serale che in Italia chiamiamo “struscio”. Una birra montenegrina Nikšićko sorseggiata lentamente prepara i nostri stomaci alla cena.

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Birra Nikšićko


Poco più di cento chilometri di strada scorrevole dividono Scutari da Tirana. Dopo la ruota bucata in Puglia e il “galletto” del deflettore saltato in Montenegro, alla stazione di rifornimento Kastrati mi rimane in mano la manovella alzacristallo, spezzatasi di netto. Ma va bene così’, perché, storicamente, gran parte dei miei viaggi “cominciati male” si sono poi conclusi nel migliore dei modi.

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Stazione di rifornimento Kastrati


Lasciamo riposare le 500 e puntiamo dritti al cuore di Tirana, verso la grande piazza intitolata a Scanderbeg, considerato eroe nazionale per aver difeso, nel Quattrocento, l’indipendenza albanese contro l’invasione degli ottomani. Il pavimento dell’immenso spazio pedonale è un patchwork di pietre provenienti da tutti i territori di lingua e cultura albanesi al di fuori dei confini nazionali. La statua equestre del condottiero con l’elmo bicorno che campeggia al centro della piazza ricorda assai quella realizzata nel 1940 a Roma dallo scultore Romano Romanelli non lontano da dove abito attualmente.

L’Albania è stata l’unico Paese di area comunista ad includere nella propria costituzione del 1976 un articolo dedicato all’ateismo di Stato. Ma già dal 1967 ogni forma di culto era stata vietata e la maggior parte delle chiese, così come dei templi e delle moschee, aveva subito profanazioni di immagini sacre e l’esproprio dei beni, diventando magazzini e depositi di armi. Nel 1991, la piccola ma raffinata moschea di Et’hem Bey, decorata esternamente con inusuali motivi floreali, venne riaperta al culto di Allah da migliaia di manifestanti albanesi che forzarono l’ingresso senza il consenso delle autorità.

Maurizio prende posto su una specie di trono malconcio in legno, con rotelle e poggiapiedi. Di fronte a lui è seduto il lustrascarpe con il corredo d’ordinanza di spazzole e creme lucidanti. In un baleno, i sandali, impolverati come se avessero calpestato le strade del mondo intero, tornano così nuovi e splendenti da urlare al miracolo.

Mi riesce difficile chiamare “bazar” un mercato pulito e ordinato come il Pazar i Ri dopo la recente “riqualificazione” che ne ha stravolto l’aspetto originario. Sotto un’asettica copertura in vetro e metallo dal profilo a zig-zag una serie di banchi espongono prodotti destinati perlopiù ai turisti: oggetti di presunto artigianato, cianfrusaglie, tabacco sfuso, pipe, cimeli del regime, olive, miele e spezie preconfezionate. Ed io, che contavo di essere coinvolto dall’atmosfera caotica di un autentico e affollato mercato popolare, con i banchi ovunque, i venditori ambulanti che gridano la loro merce, l’incessante andirivieni di operatori indaffarati tra merci, polvere, odori e colori, alzo i tacchi e mi addentro in una viuzza defilata a rovistare nei negozietti di giocattoli usati e nelle botteghe di robivecchi, fabbri e idraulici intenti a ribobinare vecchie pompe sommerse.

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Di comune accordo decidiamo di evitare i vari bar, bistrot e ristoranti alla moda e di pranzare in una trattoria al di fuori dei percorsi turistici. La scelta della bettola a gestione familiare si rivela vincente: il fërgesë, piatto a base di peperoni rossi, pomodori pelati e cipolle cotti con ricotta e spezie, è da leccarsi i baffi!

L’Albania è costellata di bunker. Sono centinaia di migliaia; hanno la forma di una calotta sferica e la struttura in cemento armato. I più diffusi hanno dimensioni tali da contenere, al massimo, un paio di persone. Sono stati realizzati tra il 1950 e gli anni Ottanta quando Enver Hoxha temeva che tutto il mondo gli fosse nemico. Avrebbero dovuto consentire all’esercito di contrastare una potenziale invasione straniera utilizzando le tecniche della guerriglia.
Nel corso del viaggio incontrerò bunker ovunque, persino sulle spiagge e nei cimiteri: abbandonati, vandalizzati, adibiti a ricovero per animali, diventati fungaie e discariche abusive, ristrutturati e riconvertiti in bar o in Bed and Bunker (come nel caso del progetto di ricerca realizzato dagli studenti dell’Università di Scienze Applicate di Magonza nella riserva naturale di Kune-Vain-Tale).

Il grande bunker con la calotta a “spicchi” nel centro amministrativo di Tirana, costruito per ospitare la nomenclatura albanese in caso di attacco nucleare, oggi si chiama Bunk’Art ed è un museo che racconta la storia albanese del XX secolo.

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In Tirana


Le plumbee gallerie sotterranee, che in epoca comunista collegavano tra loro gli edifici governativi, oggi smistano i visitatori negli ambienti adibiti a sale espositive protette da spesse porte d’acciaio. In alcune stanze viene spiegato come operava la Sigurimi, l’apparato di polizia segreta del regime che nella Germania Est si chiamava Stasi e Securitate in Romania.
A proposito di gallerie: sembra che il sottosuolo dell’Albania ospiti la più vasta rete di tunnel al mondo dopo la Corea del Nord.

Quando sei a Tirana capisci subito che “la Piramide” è un importante punto di riferimento per orientarsi in città. Questo stravagante oggetto alieno, a metà tra una piramide a base poligonale e un disco volante, venne costruito per essere il mausoleo celebrativo del dittatore e museo del suo patrimonio. Al momento è recintato perché sottoposto ad un restyling che lo trasformerà in un moderno centro polifunzionale.

Dopo aver fatto colazione con un mattoncino di revani, il dolce albanese a base di semolino dal peso specifico pari a quello dell’osmio, ce ne andiamo al Blloku, il quartiere di Tirana dove risiedevano le alte cariche politiche e amministrative dello Stato ai tempi del regime. Nel chiedere informazioni sull’ubicazione della ex residenza di Hoxha percepisco che il solo nominare colui che ha governato il Paese per oltre quarant’anni fa ancora ribollire il sangue di tanti albanesi. L’intera area è stata a lungo interdetta ai “comuni” cittadini, recintata e sorvegliata da militari armati fino ai denti.
Enver Hoxha ha governato ininterrottamente dal 1944 al 1985. Dopo aver rotto i rapporti con la Jugoslavia, si isolò diplomaticamente dall’Unione Sovietica e successivamente prese le distanze anche dalla Cina portando l’Albania a chiudersi ermeticamente al mondo. Il regime comunista albanese, totalitario e isolazionista, è stato tra i più duri del blocco orientale.
Forse non è un caso che la villa dell’ex leader non sia indicata nei cartelli turistici né attraverso una targa all’ingresso, quasi si trattasse di un ricordo scomodo da esorcizzare. La sua sobria architettura anni Cinquanta passerebbe inosservata se non fosse menzionata nelle guide.

Le luci delle strutture dei semafori di Tirana mi ricordano le luminarie da festa di paese. Sono efficaci e ben visibili da molto lontano.

La mattina della partenza per Elbasan cerchiamo ispirazione per scattare qualche foto ricordo di Tirana con le nostre FIAT 500. Tutti i principali simboli della città sono inaccessibili alle auto, così dobbiamo accontentarci di pochi scatti ai margini di piazza Scanderbeg e di una foto con la nuovissima torre progettata da uno studio italiano di architettura.

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Quaranta chilometri più tardi, dopo una sosta per fotografare le 500 sotto il cartello stradale di inizio città, la bicilindrica di Maurizio si riavvia a stento.

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Elbasan


Il danno non è al motore ma elettrico. Maurizio non si pronuncia per scaramanzia ma sa già che il problema risiede nel motorino d’avviamento. Nell’Auto Servis di Elbasan un tecnico verifica il livello di carica della batteria e conferma la diagnosi del mio amico. Spingiamo la 500 sulla fossa di ispezione facendo scorrere pericolosamente le quattro ruote sull’orlo del baratro.

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«Lascia fare a me!», sembra dire Maurizio all’elettrauto, non so se per sfiducia nei suoi confronti o perché non vede l’ora di sporcarsi le mani. Dal cofano anteriore tira fuori la borsa con i pezzi di ricambio, indossa la tuta da meccanico e si cala nella buca per smontare il motorino d’avviamento. Svita la fascetta di protezione, sostituisce le spazzole, estrae il rotore, svita l’interruttore di accensione, rimuove la coppiglia che fissa la leva del pignone e sfila la bobina centrale; smonta il pignone, la leva e la molla. Con la carta abrasiva pulisce i contatti in rame, rimuove lo sporco tra le lamelle e con un panno elimina altri residui della bobina del rotore. Assembla il tutto e mette in moto. Problema risolto!

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Al tramonto, il viale che costeggia le robuste mura della città vecchia di Elbasan viene chiuso al traffico delle auto e consegnato ai passi rilassati delle persone e al rumore frusciante del loro chiacchiericcio. Le fortificazioni illuminate scenograficamente e la maestosa torre dell’orologio incorniciano un’atmosfera d’altri tempi.

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Poco più in là, nel centro della città moderna, un’infilata di pseudo lounge bar servono acqua e caffè agli avventori seduti ai tavoli.

Il teatro Skampa è un piccolo teatro all’italiana con un’acustica eccezionale, «tra le migliori in Albania», spiega con orgoglio Flori, direttore dei lavori di restauro. Con lui andiamo a sederci in un elegante bar a ridosso delle mura antiche. Acqua e caffè per tutti e colonna sonora non richiesta di vecchie canzoni italiane.
Durante la dittatura, quando esisteva un solo canale televisivo, per giunta imbottito di propaganda di supporto al regime, il Festival di Sanremo rappresentava la finestra prediletta sull’italian way of life. La kermesse musicale veniva seguita sottobanco dopo aver sintonizzato il televisore, illegalmente e con semplici espedienti tecnici, sulle frequenze della RAI. Il Bel Paese diventò presto, nell’immaginario di moltissimi albanesi, il sogno proibito la patria del benessere e dell’opulenza.
Pur avendo un buon impiego, Flori è costretto ad arrotondare con altri lavori. In Albania si guadagna in media dai 35.000 ai 70.000 lekë ~ l’equivalente di 300 e 600 euro ~ che non bastano per arrivare a fine mese, specie nella capitale dove l’affitto di un trilocale in centro costa circa 65.000 lekë. «Con il regime», aggiunge Flori, «si avevano molte più tutele lavorative che sono venute meno con la privatizzazione dello spazio pubblico, della sanità e dell’istruzione degli ultimi trent’anni».

Proseguiamo il viaggio dirigendoci alle lagune del parco nazionale Divjake-Karavasta. Un piccolo bunker spunta dalla sabbia come un ricordo velenoso della “sindrome da invasione” di Hoxha.
Facciamo tappa al monastero di Ardenica, antico centro spirituale del cattolicesimo ortodosso che custodisce un raro tesoro di affreschi e icone sacre, nonché uno straordinario pulpito in legno intagliato del 1700 dalla forma a calice.
Superata Valona e il suo curatissimo lungomare, arredato con palme dal tronco alto e sottile e con ampi ciuffi sulla cima, la strada costiera lambisce una teoria di arenili gremiti dei tanti albanesi tornati per trascorrere le ferie estive sulle patrie spiagge.
La base navale Pasha Liman, base per sottomarini durante la Guerra Fredda, non è accessibile ai civili, a dispetto di quanto riportato dalla Lonely Planet; così ingraniamo la retromarcia e torniamo sulla SH8. Di lì ad una ventina di chilometri la strada si fa tortuosa e la pendenza aumenta. Le 500, spavalde, affrontano tornanti, curve e controcurve fino ai 1043 metri del passo Llogara, il punto più alto del tracciato che collega Valona con Saranda, da cui si gode di un panorama impressionante della costa ionica.
Arriviamo ad Himara che è già sera. La cittadina balneare è intasata di auto e di vacanzieri. Ne usciamo a ruote levate e ci dirigiamo verso un provvidenziale quanto sgarrupato campeggio di periferia dove corpi e motori godranno del meritato riposo.

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Himara


Himara è alle spalle. Dalla statale scorgiamo l’ingresso del bunker sottomarino per sommergibili di Porto Palermo, un tunnel con il pavimento d’acqua scavato nella montagna. Aggirata Saranda, viriamo a Nord con destinazione Argirocastro.
La strada nuova nuova appena fatta, un manto liscio di asfalto su cui i piccoli 125/12 rotolano che è un piacere, comincia inesorabilmente a salire con pendenze prossime al 10% e si apre attorno a noi un panorama di brulli rilievi dolci ed imponenti. Con un colpo di clacson Maurizio mi chiede di accostare: la spia della riserva di benzina della sua 500 è sul rosso fisso da un po’ ~ come la mia, del resto ~. È impensabile raggiungere, in salita e con la seconda marcia, la prima stazione di rifornimento utile che il navigatore segnala a venticinque chilometri. Non ci resta che fare un’inversione a U e tornare a valle, con il cambio in folle e a motore spento, fino al distributore dove arriviamo con appena mezzo litro di carburante nel serbatoio! Dimentico di chiudere il cofano premendo sulla nervatura centrale e pago questa leggerezza una volta raggiunti i 60 km/h quando il parabrezza diventa di colpo tutto nero come un sipario chiuso sulla carreggiata.

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Il borgo ottocentesco di Argirocastro è appollaiato su una collinetta nel Sud dell’Albania, non distante dal confine con la Grecia. Città natale di Enver Hoxha ma anche di Ismail Kadare, pluri-candidato al premio Nobel per la letteratura, è sito UNESCO dal 2005 perché rappresenta un “raro esempio di città ottomana con costruzioni tipiche”. Le vie del centro storico si snodano a raggiera tra le case monumentali dipinte di bianco con i tetti di ardesia. Alcune tra le abitazioni tradizionali “a torre” sono aperte ai visitatori. Tante altre sono state riconvertite in guest house e Boutique Hotel, botteghe di artigianato locale e costumi tradizionali. Troppi, a mio parere, i negozi di cimeli comunisti e paccottiglia varia, i bar e i ristoranti. Tutto sembra allestito in funzione del turista.

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Argirocastro


Nel castello, l’artiglieria sottratta all’esercito italiano e a quello tedesco, le prigioni costruite da re Zog I e successivamente utilizzate dalla Wehrmacht prima e dai comunisti fino al 1968 per rinchiudervi i dissidenti politici; l’aereo della U.S. Air Force, un Lockheed T-33, che la propaganda del regime di Hoxha fece passare per aereo spia abbattuto dall’esercito albanese durante la Guerra Fredda.

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Berat ci accoglie nel primo pomeriggio con la sua trama asfissiante di vicoli ripidissimi e le sue bianche case ottomane dalle mille finestre occhieggianti, affastellate sui due versanti della valle del fiume Osum. Qui, chiese e moschee sono una accanto all’altra, nel segno di una quieta coesistenza tra le confessioni religiose professate in Albania. Musulmani, cattolici, ortodossi, bektashi e fedeli di altri culti convivono in un clima di reciproco rispetto e di pacifica armonia in cui l’appartenenza religiosa non costituisce un elemento dirimente nella quotidianità e nei rapporti interpersonali.

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Berat


La sera ci salutiamo sotto la bandiera rossa con l’aquila bicipite le cui teste guardano in due direzioni opposte. Per Maurizio il viaggio nella “terra delle aquile”, Shqiperia per gli albanesi, finisce qui. Sua figlia lo aspetta per trascorrere insieme il fine settimana.

Il secondo giorno a Berat comincia mollemente con una soffice sfoglia ripiena di ricotta e spinaci chiamata byrek e prosegue nella cittadella, tutt’ora abitata.
È sera. Ho appena fatto il pieno con un agnello cotto nella terracotta con uova e yogurt e sto sorseggiando una Korça quando vengo a sapere che in questi giorni è in corso l’annuale pellegrinaggio dei bektashi sul monte Tomorr, il massiccio più alto dell’Albania meridionale.
Da quel che leggo, apprendo che i bektashi sono una confraternita islamica, ispirata al sufismo, presente quasi esclusivamente in Albania. Il loro credo si fonda sulla tolleranza, predica la pace e il rispetto reciproco. Affida al singolo ogni responsabilità e non obbliga il credente alla preghiera né impone particolari divieti.
L’indomani salirò sulla montagna sacra dove si commemora il santo Abaz Aliu sepolto in un minuscolo santuario sul cocuzzolo del monte.

Questa volta risparmio alla 500 una strada davvero impegnativa pagando un passaggio a bordo di una scintillante Mercedes-Benz AMG.
Un’atmosfera di devozione mista ad una gran cagnara mi accoglie in una specie di campo base gremito di pellegrini. Sono invitato ad entrare nella tekke, una sorta di moschea priva di minareti dove Hajji Dede Edmond Brahimaj sta ricevendo, in udienza, i fedeli. Il leader mondiale della comunità bektashi ha una lunga barba canuta e un copricapo verde. Ascolta, penetrando nei loro sguardi, gli interlocutori che a lui affidano questioni personali; risponde con voce profonda e con parole che a me arrivano cariche di saggezza e lungimiranza; soccorre con autorevoli consigli, offre conforto, prega per ognuno di loro.
Ho il piacere di stringergli la mano e poi di avviare, con Sua Santità, una breve conversazione. Nel congedarmi, ricevo in dono, nelle mie mani disposte a coppa, una pioggia di caramelle.

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Da un arco in pietra, basso e stretto, accedo alle cinque tombe dei dervisci fondatori del bektashismo albanese. I fedeli girano in senso antiorario intorno ai sepolcri coperti da drappi verdi di velluto martellato toccando con la mano i cippi sepolcrali sui quali lasciano cadere monete e banconote.

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Poco più avanti, tra fumo, colature di cera e il puzzo di moccolaia, una serie di bocche incastonate in un muro di pietra affumicata forniscono il fuoco necessario per accendere centinaia di candele.

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Salgo ancora, fino al capannone dove si sacrificano gli agnelli secondo il rituale bektashi: come in una catena di montaggio, i poveri ovini vengono sgozzati da macellai esperti, scuoiati e privati delle interiora. In segno di purificazione i fedeli si segnano la fronte con il sangue fresco dell’agnello appena sgozzato.
In un’area dedicata, l’agnello viene poi arrostito e consegnato al padrone che, da buon credente, ne donerà la terza parte al prossimo bisognoso.

Moschee, architetture razionaliste, un anfiteatro romano, mura bizantine, la torre veneziana, eleganti dimore Liberty, squallidi edifici, vie animate e il lungomare radical kitsch: Durazzo, ultima tappa del viaggio, è spiazzante. È un libro aperto sulla complessa storia dell’Albania. Qui hanno regnato greci, romani, bizantini e veneziani. Gli ottomani vi sono rimasti per cinque secoli; l’Italia fascista, dal 1939 al 1944 e i comunisti per 45 durissimi anni.

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Durazzo


E anche questa è fatta!
Per il sostegno ricevuto, ringrazio l’azienda Axel Gerstl che da anni è un valido punto di riferimento per gli appassionati di FIAT 500 (e non solo) di tutto il mondo.
Ringrazio il gentile e generoso popolo albanese che mi ha accolto e coccolato. Più che un sopite, mi sono sentito un miku (amico di famiglia).
Un grazie speciale va alla mia 500 che a cinquant’anni suonati sembra non averne ancora abbastanza.

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